MAN_Museo d'Arte Provincia di Nuoro

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Muchador

05.08  -  25.08.2011

Nell’ambito della tredicesima edizione del Festival Dromos “I racconti del velo”, negli spazi del Parco dei Suoni di Riola Sardo è stato inaugurato Muc(h)ador, la mostra collettiva che ha proposto una selezione di opere di Alessandro Biggio, Giulia Casula, Maimouna Guerresi, Maria Antonietta Mameli, Sukran Moral, Giulia Sale, sei artisti chiamati a interpretare “I racconti del velo”, titolo del festival che individua nel velo un elemento centrale e denso di significai in innumerevoli culture del presente e del passato (compresa quella sarda).

Il Festival Dromos, che da qualche anno costruisce insieme al Museo MAN la possibilità di felici convivenze, si configura come collettore di una pluralità che fa parte della nostra esperienza, troppo spesso relegata nelle caselle dei cruciverba che si trasformano rapidamente in rebus e sciarade irrisolvibili. La complessità che ancora una volta qui si vuole restituire è appena una semplice sottolineatura rispetto alla ricchezza, alla straripante abbondanza, alla marea infinita di combinazioni che ci viene profusa simultaneamente e contemporaneamente dal mondo, in cui appare facile la coesistenza e la contaminazione tra le angolature della visione e dello sguardo e il racconto per immagini sonore che costituisce l’architettura del festival, dove le opere degli artisti della mostra Muc(h)ador si innestano felicemente nello scenario suggestivo del Parco dei Suoni di Riola, luogo di straniante sospesa bellezza mai sufficientemente celebrato.

Il tema e il gioco di rimandi del titolo, trova assonanze prossime e distanti, spostandosi dal centro del Mediterraneo al Medio Oriente, ancora a dire i legami che la cultura non smette di intrecciare attraverso il tempo e le persone, ancora a dire che la stessa cultura stende un velo che sta a noi scostare per vedere la cosa in sé, la cosa nuda, la nudità. Un vedere senza mediazioni, un confronto diretto con noi stessi e la nostra percezione, senza orpelli, senza inganni, senza seduzione, crudo, per scoprire d’improvviso la necessità intima del segreto, del mistero, dell’inattingibile, della forza propulsiva e sovversiva del desiderio e del divieto. Muc(h)ador è un termine inventato, un ibridismo linguistico arabosardocatalano, una contaminazione in vitro, un meticciato forzato, sicuramente ironico, ma non irriverente verso culture e tradizioni che – col chador islamico e con su muccadori sardo – affondano le radici in ritualità antiche e ancora molto vissute. E tuttavia, proprio per non cadere in insidiose trappole di natura etimologica e/o etnografica, i sei artisti le scansano abilmente evitando riferimenti diretti a tutto ciò che in qualche modo potrebbe richiamare situazioni demo-antropologiche affatto inopportune rispetto agli orizzonti della ricerca artistica contemporanea.

Quel velo, quel copricapo-indumento, così simbolico e icasticamente coercitivo, è lacerato, attraversato, superato, alla ricerca di una dimensione ben più allusiva e obliqua. Micro e macro storie che lo trasformano in limite, in rito ipnotico e fondante, in dolore e malattia, in sopraffazione e claustrofobica prigione, in semplice supporto, in quella sensazione di misteriosa assenza, tanto incombente quanto evanescente, che l’arte può solo evocare, non rappresentare.

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