#9_Editoriale_MAN MUG

3 Giu 2025

Arte contro la guerra

– Chiara Gatti –

Nel 1927 il drammaturgo francese Romain Rolland scriveva, a proposito delle immagini tragiche e potenti di Käthe Kollwitz: “è il più grande poema della Germania d’oggi, un poema che riflette le prove e i dolori degli umili e dei semplici. Questa donna dal cuore virile li ha raccolti nei suoi occhi e nelle sue braccia materne. Ella è la voce del silenzio dei popoli sacrificati”. Una voce universale, che ha saputo tradurre le tragedie dei conflitti di inizio secolo in un urlo collettivo e assoluto. Una voce che, ancora adesso, davanti ai massacri di Gaza, ha un valore inesausto, un senso profondo del presente e dell’attualità che solo l’arte coltiva e restituisce. 

Tuttavia, le scene inique e struggenti di Käthe Kollwitz non sono odierne, ma nate nel cuore tetro del secolo breve, così come quelle di chi ha denunziato la guerra sventolando furiosamente il sudario bianco della nostra umanità.

I cunei rossi di Lisitskij, i corpi a pezzi dentro le trincee di Otto Dix, Picasso e Guernica, i lager opalescenti di Carlo Levi, le crocifissioni di Guttuso, il cancello spinoso delle Fosse Ardeatine di Mirko Basaldella, le rivolte di Emilio Vedova sollevate a colpi di pennello e pece.

Icone impresse a fuoco negli occhi e nelle coscienze, figlie di un’azione di pensiero militante, nata sotto le dittature e contro ogni forma di potere costituito, come arma di accusa e d’offesa. 

Arte “necessaria” diceva Mario De Micheli esortando gli autori a dire e a fare di più affinché l’ignoranza della violenza non avesse il sopravvento sui valori della vita. Per questo oggi, mentre l’Europa tace (e, ahinoi, talora ride…) di fronte a genocidi, invasioni e morte, la cultura è chiamate a farsi politica, a trasmettere valori civili sullo sfondo di un contesto storico precipitato nel crimine. 

Pochi giorni fa, su “La Stampa” del 26 maggio, un editoriale toccante quanto energico di Manuela Gandini, dal titolo “Serve una chiamata contro le armi”, ha tentato di scuotere le coscienze dinanzi allo sterminio in atto, citando episodi che in passato hanno visto gli intellettuali insorgere in massa al cospetto di ingiustizie e soprusi, citando esempi che spaziavano dal Vietnam ai Balcani con Marina Abramovich che, alla Biennale di Venezia del 1997, spazzolò per giorni una catasta di ossa di mucca, scorticandole da brandelli di carne putrescente. 

E, allora, stendiamo lenzuola bianche alle nostre finestre, ma chiediamo anche noi all’arte di farsi nuovamente testimone attiva, di urlare per immagini, di toccare con esse i nervi scoperti della nostra compassione, di aggrapparsi disperatamente alla comunità e di invocare la partecipazione per vincere l’orrore, armandosi solo di quello che Milan Kundera definì un prezioso «connubio di cultura e vita, creazione e popolo».